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Lettera a mia figlia…

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Qualche anno fa, raccontavo a mia figlia — Asia, oggi 12enne — una parabola che mi sembrava edificante.

«Quando ero piccolo — le dicevo — mia mamma mi raccomandava di mangiare tutto quello che avevo nel piatto, “perché in Cina e in India ci sono milioni di bambini che muoiono di fame”. Oggi le cose sono cambiate, e io ti dico di studiare, perché là fuori ci sono milioni di cinesi e di indiani che studiano e vogliono il tuo posto di lavoro».

Mia figlia mi guardava perplessa, ma la frase piaceva molto a me, non importava che lei la capisse: era il segno della bontà della globalizzazione, dei passi avanti fatti dalla Cina e dall’India e da quello che una volta si chiamava Terzo Mondo. Oggi non la ripeterei, non nella stessa forma.

Prima che la crisi finanziaria mettesse sottosopra il mondo, ero convinto che i cinesi non avrebbero potuto diventare una superpotenza globale del tipo degli Stati Uniti. Soprattutto perché non hanno una cosa fondamentale da esportare: un modello politico, sociale, culturale. Chi accetterebbe— mi dicevo— un autoritarismo in stile pechinese? Quanti Paesi potrebbe influenzare il non rispetto dei diritti umani e la mancanza di libertà? La Cina — concludevo — diventerà probabilmente una grande potenza economica, forse militare, ma mai qualcosa come un modello culturale da imitare. Il dibattito che ha riempito nei giorni scorsi le pagine e i blog del Wall Street Journal mi ha fatto pensare che un modello cinese, o una parte di esso, sta invece guadagnando consenso rapidamente.

In un libro appena pubblicato negli Stati Uniti — L’inno di battaglia della Madre Tigre — Amy Chua, una professoressa di origine cinese che insegna all’Università di Yale, esalta il metodo autoritario e durissimo con il quale le madri cinesi educano figlie e figli. Obiettivo: il successo nella vita, perché solo avere successo in un campo riempie l’esistenza. I punti forti che la professoressa Chua elenca sono già diventati famosi.

Alle due figlie, Sophia e Louisa, non ha mai permesso di: dormire a casa di amici (i nostri pigiama-party); prendere appuntamenti di gioco; essere in una recita scolastica; lamentarsi di non essere in una recita scolastica; guardare la televisione o giocare al computer; scegliere le attività extra curricolari; avere meno dei voti massimi; non essere lo studente numero uno a parte ginnastica e teatro; suonare uno strumento che non sia il pianoforte o il violino; non suonare il pianoforte o il violino. I pilastri ideologici che stanno dietro questi precetti— dice la professoressa — sono tre: le «madri cinesi» partono dall’idea che i figli siano forti, che non abbiano bisogno di costruire un’autostima e quindi usano tutto, dalle punizioni corporali alle offese, per raggiungere uno scopo; ritengono che i figli debbano tutto ai genitori; sono certe che i genitori e solo loro sappiano cos’è meglio per i figli e quindi passano sopra «a tutti i loro desideri e preferenze» . Questo è il modello cinese, vincente, sostiene Amy Chua, la cui figlia Sophia ha tenuto, giovanissima, un recital al pianoforte alla Carnegie Hall di New York.

Abbiamo, noi occidentali, qualcosa da imparare, da copiare? Perché è vero: nelle classifiche internazionali le ragazze e i ragazzi asiatici sono in testa alla lista dei più studiosi e profittevoli. Le risposte che le sono arrivate al Wall Street Journal hanno oscillato tra l’imbarazzo e il politicamente corretto. È evidente che la professoressa Chua e le sue «madri cinesi» azzerano la libera scelta dei figli fin dalla giovane età; che li forzano a cercare di eccellere dove probabilmente non vorrebbero; che annullano la possibilità che i giovani prendano strade nuove e originali sulla base dei loro interessi veri; che impongono la tecnica sulla creatività; che spingono al conformismo. Ma è anche evidente — e qui il mio errore — che questo modello fa proseliti. Amy Chua spiega che quando parla di «madri cinesi» lo fa per comodità, ma che lo stesso vale per genitori «coreani, indiani, giamaicani, irlandesi e ghanesi» che lei conosce.

La mia impressione è che anche in Occidente una parte dell’opinione pubblica e degli intellettuali sia attratta dal metodo cinese: visti i buoni risultati, a scuola e nel business, meglio imparare da loro. Sono quegli stessi occidentali, credo, che sono ammirati dal modello politico economico di Pechino, efficiente e imposto dall’alto, ritenuto migliore di quello democratico, che nasce dal basso. È una visione strabica della realtà che, se prendesse piede, produrrebbe un mondo omologato dal potere — si tratti dei genitori o dei mandarini del partito —, conformista, senza sorprese. Alla lunga immobile e instabile. Una globalizzazione asiatica degli studi, dell’economia, del modello politico sarebbe una iattura. Ma i nuovi e vanitosi cinesi — che hanno dimenticato la raccomandazione del loro grande leader Deng Xiaoping di tenere un basso profilo — ormai la spingono avanti, se ne gloriano, nel pubblico come nel privato, e fanno proseliti.

«Studia — dirò una di queste sere a mia figlia —. Là fuori c’è un esercito di cinesi con il massimo dei voti. Ma spesso sono giganti dai piedi d’argilla: dove li metti, stanno. La tua forza è il libero arbitrio».

Un papà…

(25 Gennaio 2011)

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