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Nel palazzo dei Bimbi liberi

Bastava poco. I gessetti, l’elastico, le biglie. Il pallone e le biciclette. Se non pioveva, i bambini stavano «giù» per ore. Erano liberi.

Di trascorrere il pomeriggio all’aperto e al sicuro, in quel luogo avventuroso e familiare che era il cortile, pochi divieti e regole chiare: «su» per l’ora di cena, niente risse, guai a chi rovina i pantaloni. Erano gli anni Sessanta, a Milano si costruivano caseggiati anonimi con il ventre di cemento, campetti urbani per i nuovi cittadini del boom economico. Asfalto e vasche (quando c’era un’idea architettonica). Tubi giganti e «piste» per le gare. Posti del genere ce ne sono ancora. A migliaia. Ma sono invecchiati: hanno perso voci e colori (per non parlare dell’acqua), si sono guadagnati nuovi inquilini — le auto, i bidoni della raccolta differenziata — e nuove leggi: vietato il gioco, vietati gli schiamazzi.

Per fortuna qualche eccezione è rimasta. In piccole oasi di welfare condominiale. Per far funzionare (e vivere) un cortile, nel 2011, ci vuole solidarietà. Come una volta. «Scusi Nella, devo andare a ritirare le analisi, può dare un’occhiata a Francesco?» . Basta chiedere, lei c’è. Per Stefania, Tommaso, Gabriele, Lara, Elisabetta, Claudia. Per tutti i 26 bambini (dai sei mesi ai quindici anni) del condominio di via Oroboni 8, zona nord di Milano. Nella Pagani non è una tata, e nemmeno una portinaia. Ha settant’anni e un’aria burbera, che ai piccoli piace da morire. La sua casa è piena di biscotti e giocattoli, ma appena il tempo lo permette, lancia il suo grido: «Tutti giù» . Li osserva dal ballatoio. Senza dire molto. Li guarda correre in quel cortile che è una miscela di vecchio e nuovo, macchinine giocattolo e automobili vere, bidoni, tombini, lenzuola stese, palloni, hula hoop abbandonati per terra, moto, passeggini, corde.

Forse è per questo, per il fatto di essere un condominio immune dalla mania contemporanea del «decoro» , che qui a Bruzzano si gioca ancora come una volta. E perché Nella (Anellina) e Felice Pagani, con la loro porta sempre aperta, un succo di frutta per chi ha sete, un cerotto per chi è caduto, hanno riempito e ritrovato un ruolo, curato le ansie di tante mamme lavoratrici, dato autonomia a chi la voleva, coraggio a chi lo cercava. I due coniugi alzano le spalle, un po’ stupiti da tanta attenzione: «Non facciamo niente di speciale». Sbagliato: è un’alchimia rarissima quella di via Oroboni. Difficile da riprodurre nelle metropoli del XXI secolo. Servono ingredienti precisi e perfettamente miscelati per far giocare (bene) i bambini. Il luogo, il tempo, il controllo, la comunità. Se mancano, il cortile fallisce. Non per la sua costituzione architettonica, perfetta nel ricreare una «terra di mezzo», spazio fisico e metafisico tra la casa e la strada, dove esplorare è un rischio misurato e una sfida quotidiana. I nemici del «gioco all’aperto» sono altri. Il primo: «Ciò che è limitato nello spazio non lo deve essere nel tempo» , dice Antonio Longo, docente di Urban planning and design al Politecnico di Milano. Spiegazione: «Il cortile non vuole orari.

Per questo, per la sua naturale indeterminatezza, non rientra più nell’agenda dei bambini: terminata la scuola — e con il tempo pieno non è mai prima delle quattro del pomeriggio — comincia la corsa agli impegni “extracurricolari”. Lezione di chitarra, di inglese, di tennis. Sono pomeriggi fitti di appuntamenti, la giornata è blindata» . E il sabato e la domenica sono di pertinenza esclusiva di mamme e papà, difficilmente disposti a rinunciare a ore preziose con i figli in nome del gioco libero. Il luogo ci sarebbe, «mancano le condizioni» , insiste lo studioso. Serve un condominio che tolleri il gioco, almeno a orari precisi. Impresa non semplice, nell’era del no kids, del «qui non posso entrare» applicato all’infanzia. Serve il controllo, altro dramma contemporaneo, in assenza di portinai e di mamme (casalinghe) che si assumano la responsabilità di curare «anche gli altri» .

Serve lo spazio, che è in conflitto con i nuovi usi della corte: parcheggio— in superficie e interrato— zona rifiuti, impianti. Poi c’è la questione del decoro. Invocato, cercato, mitizzato come cura (palliativa) per il male di vivere cittadino. Soprattutto a Milano, dove per parcheggiare la bicicletta negli spazi comuni di un condominio bisogna far valere (a costo di battaglie legali) il regolamento edilizio comunale, dove la soglia di tolleranza del rumore è diventata bassissima, dove la vaghezza di un pomeriggio passato all’aperto, a tirare calci a una palla— senza coach, senza divisa, senza esercizi— non è più accettabile: i cortili hanno altre funzioni. E altre vesti: spazi di rappresentanza, zone asettiche di passaggio, anticamere dei parcheggi. Nella sorride: «Lasciamoli correre questi bambini. Se esagerano basta sgridarli» . Suo marito Felice organizza gite in bicicletta, chi non ha ancora imparato viene messo alla prova, durante la bella stagione si va nell’orto vicino a casa, d’inverno si disputano tornei di tiro alla corda. Sempre in cortile, sempre sotto casa. «È un modo per conoscersi, per rispettarsi, per imparare le regole dello stare insieme» . E per integrarsi: «Abbiamo anche tre piccoli sudamericani— Penelope, Jommy, Angelo — e Matteo, che arriva dalla Bulgaria. Simpaticissimo» . Lunghe ore trascorse insieme. Un privilegio, ora. Una consuetudine, trent’anni fa. Se lo ricordano bene i 107 iscritti al gruppo Facebook dal nome «Noi i ragazzi del cortile di via Sulmona» , sempre a Milano, zona sud questa volta. Sottotitolo: «Case gialle contro case marroni» .

Sembra di vederle, le bande. Milanesi doc e figli degli operai del Sud, ginocchia sbucciate e rosse di mercurocromo, tute rattoppate, interminabili partite di calcio. E, sullo sfondo, mamme estranee a qualsiasi senso di colpa— perché tanto c’erano, sempre— che si limitavano a lanciare uno sguardo dalla finestra e a dire «se ti picchiano te la sei cercata» . Uno scorcio di città in bianco e nero. E un luogo mitico, il cortile. Quel playground teorizzato dall’architetto olandese Aldo van Eyck che dal 1947 al 1978 progettò ad Amsterdam settecento campetti (condominiali e non). Con un’idea semplice ma rivoluzionaria: la realtà ludica concepita come strumento in grado di superare le barriere del vicinato, la partecipazione come rispetto delle regole di convivenza. È qui, tra le mura dei palazzi, che nasceva una nuova società. Quella postbellica. Non più strada e non solo casa, tutti diversi e tutti insieme. Libertà e confronto. E chi si comporta male è fuori dal gruppo (e dal campo). Forse è impossibile ricostruire esperienze e luoghi simili. Nella però è ottimista (nel frattempo le suona il citofono, è Clara che è venuta a riprendersi Francesco): «Se facessero tutti come noi non ci sarebbero problemi. A me non costa niente. Anzi, ricevo molto più di quello che do» . L’architetto Longo è un po’ più provocatorio: «Propongo un’ordinanza che abolisca il divieto di gioco nei cortili» . Che superi ogni lite condominiale o esigenza di «quiete diurna» , lasciando ai piccoli piena libertà di movimento. «In fondo — dice Longo— serve una semplice correzione: si prende il vecchio regolamento edilizio e, nel passaggio in cui si consente di parcheggiare le biciclette negli spazi comuni dei palazzi, si sostituisce alle due ruote la parola “bambini”. Se possono entrare le bici, devono poterlo fare anche loro» .

(1 Febbraio 2011)

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