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Bimbi sui banchi delle elementari già a cinque anni, è giusto?

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A cinque anni l’americano Kristoffer Von Hassel ha scoperto che il suo videogioco aveva una grossa «falla» informatica. E per questo è stato pure premiato, poche settimane fa, dall’azienda produttrice. Ma chissà se è già pronto per andare a scuola. Sì, secondo Olanda, Regno Unito, Ungheria e Cipro. Decisamente no per altri Paesi come Svezia, Danimarca e Finlandia, dove tra i banchi ci si sede a 7 anni. E per l’Italia? Oggi la Primaria (le vecchie elementari) inizia a 6. Ma ai microfoni di Radio Capital il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha riaperto il dibattito sull’età. «Bisognerebbe dare la possibilità di mandare i figli a scuola un anno prima», ha detto.

L’ipotesi di un’anticipazione non va giù ai sindacati. Cisl scuola e Flc-Cgil dicono di no. L’Anief, invece, appoggia il ministro: «Bisogna adeguarsi ai tempi che cambiano, sbagliano gli altri ad essere conservatori». Gli esperti si dividono. I genitori, in tutto questo, si chiedono cosa sia meglio fare per i propri figli.

La questione, in realtà, non è nuova. Se ne parlava già alla fine degli anni Novanta, quando il dicastero dell’Istruzione era guidato da Luigi Berlinguer. A un certo punto comparve pure una bozza con tempi e costi, ma poi tutto si bloccò: troppo difficile mettere in pratica.

Sui banchi già a 5 anni quindi? «Assolutamente sì», esordisce Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia. «Ma bisogna fare attenzione: abbiamo comunque a che fare con degli esseri fragili». Per questo, «quando verrà il momento, bisognerà ripensare tutta la prima elementare: il programma didattico dovrà essere rielaborato e avere una funzione di collegamento con quello che si è fatto all’Infanzia». Se questo non succede, avverte Vegetti Finzi, «la novità può essere addirittura controproducente».

In una possibile prima elementare a 5 anni, secondo la psicoterapeuta, «si deve mettere da parte l’idea di un rapporto verticale cattedra-banco: non si può imporre a insegnanti e alunni così piccoli di avere un rapporto gerarchico, serve molta elasticità». A livello didattico, poi, «bisognerebbe puntare molto sulle attività manuali, sul disegno, sulla musica, sul canto. Un programma rigido non serve a nessuno».

Certo — concede Vegetti Finzi — i bimbi oggi «hanno molte più competenze cognitive, sono abituati a vivere in mezzo alle persone, socializzano bene». Ma ciò non toglie che «il programma del primo anno debba fare molta attenzione ai loro sentimenti: si tratta comunque di esseri umani che sono degli analfabeti emotivi». E deve ricordarsi che i bimbi «conoscono poco il proprio corpo, anche nelle cose magari quotidiane come arrampicarsi su un albero, lanciare un sasso, correre».

«Quella del ministro Giannini è una buona idea: bisogna anticipare di un anno la fine del ciclo scolastico per allinearsi agli altri Paesi», ragiona Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli. Che, però, parla di «obbligo flessibile», perché ognuno la sua storia e il suo percorso. Per farlo Gavosto racconta la sua esperienza personale. «Io ho tre figli — dice —. La bimba l’ho iscritta già a 5 anni. Mi sembrava pronta e devo dire che i risultati, negli anni, l’hanno confermato». Ma il ragionamento non è stato lo stesso per gli altri. «Uno dei miei figli non l’avrei mai fatto iniziare a 5 anni: non mi sembrava avesse ancora le caratteristiche adatte». Ecco perché, secondo il presidente, «la soluzione migliore sarebbe lasciare libertà ai genitori: decidano loro quando iscriverlo, la famiglia è il miglior giudice».

L’unico risvolto negativo, Gavosto lo vede nella matematica. «C’è un problema tecnico: in questo modo si verificherà l’“onda anomala” con due generazioni di studenti che finiranno per frequentare lo stesso anno scolastico». E a quel punto, «passando da 500 mila a un milione in pochi mesi, bisognerà raddoppiare tutto: le aule, gli insegnanti…».

Anna Oliverio Ferraris, psicologa e docente all’Università La Sapienza di Roma, però schiaccia il freno. «Non sono mai per accelerare le cose: i bimbi imparano in modi e tempi diversi. Molti di loro non sono pronti, hanno tempo di attenzione limitati e imparano facendo cose, muovendosi: tutte cose inesistenti in questa prima elementare». Non solo. «Se li iscriviamo già a 5 anni togliamo loro l’elemento giocoso». Se però, alla fine, si dovesse decidere per il cambiamento, secondo Ferraris «la didattica del primo e del secondo anno dovrebbe imitare il programma della scuola dell’Infanzia: molti lavori manuali, ricreazione più lunga, tante esperienze all’aperto, in mezzo alla natura». «E che non si mettano a dare i voti — conclude —. I piccoli non sono pronti ad affrontare lo stress emotivo».

Sulla stessa linea anche Susanna Mantovani, docente di Pedagogia generale all’Università Bicocca di Milano. «Non ha senso mandarli a studiare a 5 anni», dice. Anche perché «la nostra scuola dell’Infanzia non va affatto male. Certo, ci sono dei problemi qua e là per l’Italia, ma le valutazioni internazionali ci dicono che va già bene così, perché dobbiamo condannare i piccoli a stare un anno in meno in un posto così bello dove possono imparare tanto?». A confortare la sua posizione, sostiene Mantovani, «ci sono le realtà degli altri Paesi: Svezia e Finlandia fanno iniziare più tardi, a 7 anni». E così, se proprio si vuole intervenire in quella fascia d’età, «sarebbe molto meglio potenziare proprio l’Infanzia, anche introducendo l’elemento della lingua straniera. In alcune regioni ci sono delle eccellenze in questo senso: basterebbe copiarle e applicarle nel resto del Paese, senza stravolgere tutto».

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