Me Agape Reportage

Come inventarsi il «bilinguismo»

A chi non è capitato d’estate di incontrare in aereo quei gruppi di ragazzi italiani di ritorno dalle vacanze estive in Gran Bretagna.

Facce felici, zainetti pieni di souvenir e una sola certezza: aver parlato l’inglese molto meno del dovuto. È il rompicapo delle famiglie italiane quello di far apprendere una seconda lingua ai propri pargoli. In classe, ormai è acclarato, s’impara poco. Alcuni genitori corrono ai ripari con i corsi privati che vengono più subiti che amati dai ragazzi. Altri, se ne hanno le possibilità economiche, si rivolgono alle scuole internazionali. Ma un’altra via esiste.

La chiameremo bilinguismo fai da te. Ovvero far sì che la seconda lingua entri a far parte della vita familiare di tutti i giorni più o meno come un gioco. La novità è che, al contrario di quanto molti pensano, non serve che i genitori parlino perfettamente la lingua straniera per insegnarla al proprio bambino ma sicuramente è necessario armarsi di pazienza, costanza e creatività.

Antonella Sorace, da venti anni docente di linguistica acquisizionale all’Università di Edimburgo, porta avanti, in diversi Paesi europei, il progetto Bilingualism matters per rendere la società più consapevole dei benefici del bilinguismo: «Se le famiglie hanno la possibilità di introdurre due lingue dalla nascita, o anche prima, non dovrebbero avere alcuna esitazione. Bisogna sfatare alcuni luoghi comuni come quello che è meglio aspettare che la prima lingua sia ben stabilita. Il rischio che poi il bambino non sia sicuro in nessuna delle due lingue non esiste.

Quanto all’accento i bambini sono dei grandi regolarizzatori cioè non acquisiscono tutti gli errori che sentono e poi hanno comunque accesso a giochi, video e dvd con la pronuncia nativa». Diversi studi hanno evidenziato i vantaggi del bilinguismo. «Sentendo due lingue — spiega Sorace— il cervello si sviluppa in maniera diversa e rende i bilingue in grado di prestare attenzione più ai fattori rilevanti che a quelli irrilevanti, sono quindi più bravi a passare, per esempio, da un compito all’altro. Lo stesso beneficio si ottiene introducendo una lingua di minoranza (dialetto n.d.r.). Per tutti questi bambini sarà facile imparare una terza o quarta lingua».

Mettetevi a tavolino e scegliete un metodo. Quante ore potete investire nel bilinguismo? Chi parlerà la lingua straniera e quando? Su quali materiali volete puntare? Letizia Quaranta, 37 anni, italiana, è un’autodidatta. Tre anni fa ha deciso di parlare al suo bambino in inglese infischiandosene dell’accento più o meno perfetto e dopo qualche mese ha creato Bilingue per gioco, un sito che insegna a crescere un bimbo bilingue anche a chi, come lei, non è madrelingua. «Io vivo a Verona — racconta ¬ — e mi sentivo sola nel seguire il mio progetto. Così due anni fa ho pensato di creare il sito. La risposta è stata fortissima, si vede che in Italia questo problema è molto sentito». «Ogni famiglia prima di iniziare — spiega Letizia che ha anche scritto un ebook dal titolo In che lingua giochiamo? — dovrà considerare le proprie risorse e i propri limiti per esempio quanto tempo ogni genitore può passare con i bambini, se ci sono altre persone oltre ai familiari stretti che possono parlare la seconda lingua, la presenza o meno di un gruppo di gioco in lingua nella città in cui si abita. È importante essere consapevoli che si possono raggiungere diversi livelli di bilinguismo a seconda di quante ore il bambino è esposto alla seconda lingua. Quello minimale è il bilinguismo passivo: il bambino capisce ma non parla».

Prima di tutto cominciate il più presto possibile: entro il primo anno di vita il bimbo è una tabula rasa e può ripetere qualsiasi suono. In secondo luogo: siate creativi, una lingua si impara divertendosi. «Molto efficaci — dice Letizia — sono i giochi di ruolo o anche cucinare in lingua. Fondamentale è la musica, anche chi non parla l’idioma benissimo può imparare una canzoncina e ripeterla con il piccolo». In terzo luogo va stabilita una routine: bisogna puntare al massimo su cinque attività e ripeterle all’infinito. Quarto: è importante procurarsi il materiale giusto. Scegliete libri, cd e dvd preferiti dai bambini madrelingua del Paese prescelto. Per i piccoli anglofoni, per esempio, i Teletubbies sono un classico ma ci sono anche Spotty e Sesame Street. Quinto: bisogna dare il buon esempio. Una lingua è importante per tuo figlio se lo è anche per te. E poi non dimenticate mai che un bambino parlerà solo se ne vedrà l’utilità. Cercate di farlo interagire con coetanei che l’italiano non lo sanno e fategli sentire accenti diversi. Efficaci in questo senso sono i gruppi di gioco. Nelle grandi città c’è quasi sempre una comunità di stranieri che s’incontra per far divertire i pargoli. Anche Bilingue per gioco organizza alcuni playgroup a Roma e a Verona. Molto proficua è sicuramente la presenza di un’au pair madrelingua ma bisogna avere lo spazio per ospitarla in casa.

L’estate è un momento da sfruttare al meglio. Cercate di andare tutti insieme nel Paese dove si parla la lingua prescelta e iscrivete vostro figlio a un campo estivo locale: giocherà e parlerà per sei-otto ore al giorno con i coetanei del posto. Se avete un budget limitato privilegiate i luoghi di provincia: ci saranno meno italiani e sarà sicuramente più economico. «Quello che è da evitare — dice Letizia — sono i viaggi di gruppo all’estero perché di solito i ragazzi stanno sempre insieme e di conseguenza parlano solo tra di loro. Esistono anche campi estivi in lingua qui in Italia ma andrebbe valutato preventivamente se gli iscritti sono tutti italiani e qual è la loro conoscenza dell’idioma. In molti casi serve a poco». Per chi ha figli più grandicelli, dagli otto anni in su, ci sono campi avventura organizzatissimi in tutta Europa. In Gran Bretagna, per esempio, c’è la Pgl che si premura anche di venire a prendere il pargolo all’aeroporto.

Marina Marangolo, biologa, vive a Catania con il marito e le due figlie di 4 anni e 2 anni e mezzo. «Quando è nata Giulia — racconta — avevo quest’idea di parlarle in inglese. Ho pensato “proviamo un po’ come un gioco”, poi, visto che mi sentivo a mio agio, ho continuato». Ora le bambine sono entrambe bilingui solo che parlano inglese con l’accento siciliano «ma è un falso problema — spiega Marina — l’importante è capire ed essere capiti. E poi non appena andiamo all’estero prendono subito l’accento del posto». Silvia Brugiamolini, 36 anni, di Ancona, ha scelto invece un metodo più soft: «All’inizio parlavo a mio figlio di due anni e mezzo esclusivamente in inglese poi ho capito che alcune cose volevo dirle nella mia lingua madre così ho ridotto l’esposizione a un’ora al giorno». Benedetta D’Amico ha 20 anni e parla inglese alla perfezione «grazie a mia madre — racconta — che ha avuto l’idea geniale di prendere una babysitter britannica dai miei quattro ai dieci anni». Ora sta facendo uno stage negli States e dice: «Crescere con due lingue mi ha dato una visione più aperta del mondo». Anche Federico Neeri Finelli, 33 anni, ha avuto un papà che gli parlava in inglese regolarmente e ha deciso di seguire lo stesso metodo con il figlio di 22 mesi: «Gli parlo in inglese da quando era nella pancia. La mia perplessità era la profondità del linguaggio, il fatto di non essere cresciuto con quelle parole nella mia infanzia. Ma i risultati sono stati ottimi: il bambino sembra avere lo stesso livello di comprensione tra italiano e inglese. E io mi trovo perfettamente a mio agio».

(17 Aprile 2011)

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