Me Agape Reportage

La tratta dei bambini domestici che fa il giro del mondo

images-4.jpgBernadette ha treccine ribelli e occhi che sembrano volerti strappare l’anima. Gioca con la nostra macchina fotografica, scatta ritratti belli e primordiali, e a 13 anni è già veterana della vita.

Una sola volta ha provato la paura vera, quella che ti attanaglia le viscere e ha il sapore della fine: quando la zia, sua carceriera, sorprendendola a rubare del riso le ha detto che l’avrebbe fatta a pezzi per donare il suo cuore sanguinante alla madre. Era stata lei a convincere i genitori di Bernadette ad affidargliela, quando aveva 7 anni: «La porto lontano da questa miseria, la faccio studiare».

La infila in auto, all’alba, verso la frontiera di Kraké che separa il Benin dalla Nigeria. Nella bolgia del mercato addossato al confine, le piazza una tanica d’acqua in testa e pacchi di biscotti sotto braccio. «Portali oltre la sbarra, non voltarti. Io sono dietro di te». Bernadette esce dal Benin così, come 40mila piccoli fantasmi ogni anno: camminando nella polvere tra la folla che ondeggia tra i due Stati come un serpente lento, sotto lo sguardo pigro dei doganieri. Nessuna domanda. Nessun controllo. La zia la raggiunge, la porta a Lagos. La mette a lavorare nel suo spaccio di bibite con altre due piccole beninesi: le ribattezza tutte Fumilajo, perché cancellare memoria e identità rende docili i bambini. «Ci svegliava alle 5 e fino a sera portavamo pesi, vendevamo, pulivamo. La zia ci dava poco da mangiare perché costava. Ogni tanto tornava dai miei genitori a chiedere soldi per la mia scuola ».

Bernadette è analfabeta e stremata dalle bastonate. Un giorno fugge, d’istinto. Si nasconde nell’immondizia. Una donna sconosciuta le dà da mangiare, poi l’affida al figlio che va a Kraké e la consegna alla polizia beninese. Ma lei non sa più il nome del suo villaggio, della famiglia, nemmeno il suo: per due anni vaga da un centro d’accoglienza all’altro finché arriva qui, dalle suore Salesiane di Cotonou, capitale economica del Benin. Loro la iscrivono a scuola, rintracciano i suoi con un appello alla radio ma decidono di tenerla con loro: la zia reclama la piccola manovale, i genitori prima o poi cederebbero, e Bernadette sarebbe ancora in marcia sulle rotte degli schiavi.

Strana Africa, il Benin. Si bagna nel golfo di Guinea, s’appoggia a est sul gigante nigeriano ed è alieno da certi stereotipi del continente nero: Paese democratico dopo la fine del regime comunista; ignaro di guerre civili, tragedie umanitarie, epidemie di Aids. Povero, certo (il reddito medio è 490 euro l’anno; il 47 per cento degli 8 milioni di abitanti vive con meno di un dollaro al giorno): quando era colonia francese, seppelliti i regni sanguinari del Dahomey, si dava arie da “quartiere latino dell’Africa occidentale” snobbando le fatiche dei campi per darsi al commercio. Si vendevano anche gli schiavi ai negrieri portoghesi, sotto i sovrani di Ouidah; oggi si scambiano merci di ogni genere, si contrabbanda benzina dalla Nigeria. E si esportano bambini. Dai 5 anni in su. Venduti da genitori disperati a trafficanti professionisti per l’equivalente di 40, 60 euro, o affidati a parenti che promettono studi e carezze e invece sono intermediari delle mafie: li trascinano in Nigeria, Gabon, Costa d’Avorio, Congo, per piazzarli come domestici, nelle cave, fra le bancarelle dei mercati.

Nel 2001 il mondo leggeva del battello Etireno, che vagava nel golfo di Guinea con il suo carico umano: i baby-schiavi erano solo 43, ma bastò per indagare e accorgersi che il Benin era, e rimane, la piattaforma della tratta di bambini nell’ovest africano. Un rapporto del governo e dell’Unicef indica oltre 40mila giovani vittime ogni anno. Provengono dalle campagne e dai villaggi di palafitte sul lago Nokoué, dove si campa vendendo pesce a Dantokpa, il più grande mercato dell’Africa occidentale sdraiato nella laguna di Cotonou. Otto su 10 attraversano, senza documenti, frontiere di burro: via terra in Nigeria, per mare in Gabon. L’86 per cento sono femmine. Come Bernadette. Come Elizabeth ed Esta, 13 e 12 anni, sguardi disorientati, appena rimpatriate e accolte dalle Salesiane: vendute dagli zii come serve in Nigeria, si sono incontrate e sorrise al consolato beninese di Lagos e da allora sono inseparabili. Hanno dimenticato la lingua fon, parlano un ostico melange di yoruba e inglese di Lagos. La ricerca delle loro famiglie è appena cominciata.

«I numeri non sono che stime per difetto» ammette il sottosegretario al ministero per la Famiglia e l’infanzia, Rigobert Hounnouvi, un omone in tunica blu elettrico. Ci parla della legge del 2006 che finalmente punisce i mercanti d’infanzia, e dell’accordo con la Nigeria per frenare l’emorragia umana. Ma fa intendere che il budget ridicolo del suo ministero paralizza l’azione, e il fatto che solo il 60 per cento dei nuovi nati sia registrato all’anagrafe produce eserciti di baby fantasmi. Il corpo di polizia creato contro la tratta dei minori, con soli 12 uomini, non fa che il solletico ai trafficanti: il numero verde per le denunce è sempre occupato, e i 26 bambini appena intercettati su una nave diretta in Gabon sono stati frettolosamente rispediti da padri che dopo due settimane li avevano già rivenduti. «Una madre me l’ha detto chiaro: “Se mi lasci la bimba la rimando in Nigeria” » racconta suor Maria Antonietta Marchese, che dopo una vita da insegnante in Piemonte se n’è costruita un’altra da missionaria a Cotonou, disegnando un futuro per le bambine schiave.

«Non è solo la povertà, la radice della compra-vendita» spiega. «È una tradizione degenerata: si chiama vidomegòn, l’affidamento di bimbi poveri a famiglie facoltose per farli studiare. Ormai anche i funzionari statali vanno nei villaggi in cerca di piccole serve o baby sitter». Nella casa d’accoglienza delle Salesiane, finanziata dall’Unicef, centinaia di ex ragazze vidomegòn studiano, diventano sarte, parrucchiere, cuoche. Si riconciliano con la propria dignità. Talvolta con la famiglia.

A Porto Novo, capitale politica del Paese, si occupa dei ragazzi il salesiano spagnolo Juan José Gómez, ascoltando da ognuno un identico, incomprensibile desiderio: «Riabbracciare i genitori, quelli che li hanno venduti per quattro soldi. Hanno un’inesauribile capacità di sopportare: sono vivi e questo, per loro, è sufficiente per sorridere di nuovo». Julie, 15 anni, è un fiume di parole: dice del padre che l’ha affidato alla nonna, di lei che lo ha portato in Nigeria per venderlo al padrone di una cava, di sé che scappava seguendo un’unica immagine: il volto del padre. E Pacôme, magro e curvo, sorpreso con decine di ragazzini mentre montava su un camion nel mercato di Dantokpa, mimetizzato fra le cipolle dirette oltre confine. Era il suo secondo viaggio: «Io dovevo andare a Lagos» scandisce con una gravità che non si addice ai suoi 10 anni «mio padre non ha soldi».

Ruphine ha 18 anni e parla un ottimo francese. Suor Maria Antonietta l’ha vista per strada un giorno di 11 anni fa, in mutande e canotta, carica di sacchi di riso. «Sono una bambina domestica e voglio andare a scuola» le ha detto la piccola. E la sua padrona, per non farsela portar via, l’ha rinchiusa al buio, senza scarpe, in una sacrestia. «Ho pianto per la prima volta» sussurra Ruphine «nessuno sarebbe venuto a salvarmi». Invece il padre, che pure l’aveva venduta, ha sentito qualcosa dentro e l’ha cercata per portarla dalle suore. Ruphine è cocciuta, brava a scuola. «Voglio fare l’ostetrica, per dimostrare a mio padre che sono capace di grandi cose. Persino di dare la vita».

(15 Febbraio 2010)

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