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Un bimbo su sei non parla a 2 anni. E’ davvero un problema?

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images-1.jpgA diciotto mesi, un bambino inglese su quattro non è ancora in grado di pronunciare quelle 20 diverse parole che gli standard internazionali hanno individuato come “soglia minima” al di sotto della quale si può diagnosticare un ritardo nel linguaggio.

E la percentuale sale a uno su quattro se si considerano soltanto i maschi, dei quali si conosce da sempre una maggiore precocità motoria e una “pigrizia” nell’esprimersi. La ricerca, realizzata da YouGov per BBC, non fa che rispecchiare un’ansia sempre più diffusa tra le mamme (e i papà), non soltanto in Gran Bretagna.

L’ansia delle mamme rimbalza sul web in Italia: “Il mio tesoro di 21 mesi dice soltanto ‘baba’ per indicare la pappa e ‘gnogna’ per chiamare mia madre, il pediatra dice che non è nulla ma sono tanto preoccupata…”, o ancora “dove posso eseguire un test audiometrico per essere sicura che senta correttamente?”, “sapete indicarmi un bravo specialista nel Lazio?” e così via.

E se le ragioni di inquietudine non mancano (eccesso di televisione anche da piccolissimi, mancanza di tempo per leggere le fiabe, abbondanza di figli unici sono universalmente riconosciuti come altrettanti fattori che potrebbero contribuire a spiegare il fenomeno) è vero anche che i genitori di oggi sono molto attenti, forse troppo, al benché minimo sintomo che potrebbe rallentare il loro bambino nella sua marcia verso la crescita.

Spiega Stefano Vicari, direttore di Neurospicologia Infantile al Bambin Gesù di Roma: “Un tempo, molti pediatri avrebbero detto alla signora che lamentava la scarsa propensione a parlare del figlio di due anni ‘non si preoccupi, è pigro, recupererà in seguito’. Ora, per fortuna, nessuno lo fa più. Ogni bambino è diverso dagli altri e sarebbe sbagliato restare aggrappati a criteri troppo rigidi. Ma a due anni un bambino deve manifestare capacità di espressione e pronunciare delle parole, più o meno correttamente: se non la fa, è bene approfondire le ragioni”.
L’esperienza quotidiana dei pediatri italiani, i primi a dover dare risposte e a formulare diagnosi, conferma i dati inglesi. E se la ricerca britannica parla di un 34 per cento di bambine e di un 27% di maschietti che hanno pronunciato la loro prima parola già a nove mesi (in inglese dada, o daddy, proprio come ‘papà’ per i coetanei italiani), in Italia cresce l’attenzione per il ritardo nel linguaggio. E, insieme a questa, la rapidità nell’individuarne e curarne le ragioni: “Abbiamo chiesto e ottenuto di introdurre uno screening audiologico fin dalla nascita in alcune città-pilota come Lecce – spiega Giuseppe Mele, segretario della Federazione italiana medici pediatri – La sordità, o un deficit uditivo, sono naturalmente soltanto una delle possibili cause dei disturbi di linguaggio dei quali osserviamo quotidianamente l’aumento, ma sono anche quella più facile da indagare fin dalla nascita”.

Dove lo screening non viene fatto già durante il ricovero per il parto, a sette, otto mesi si può ricorrere al Boel-Test, un insieme di stimoli acustici e di parametri che consentono di stabilire se il bambino sente correttamente. E che i problemi aumentino si spiega, come afferma Mele, “con l’aumento di parti prematuri, di bambini a rischio per altre cause e di neonati che pesano meno dei parametri previsti”. “Ma – osserva da un diverso punto di vista Tilde Giani Gallino, psicologa dell’età evolutiva – bisognerebbe tener conto anche di come è cambiato il rapporto tra genitori e figli, anche piccolissimi. Un tempo i neonati e i bambini fino a uno o due anni di età vivevano perlopiù a contatto solo con i parenti stretti, dormivano molto, uscivano di casa solo per andare ai giardinetti. Ora gli stimoli e il confronto sono costanti, e ogni genitore si aspetta che il suo bambino faccia tutto subito, e si preoccupa se questo non accade”.

“I gesti – osserva ancora Giani Gallino – hanno almeno in parte sostituito le parole, e bisogna dire che la maggior parte dei bambini che tardano a parlare si fa, comunque, capire benissimo dagli adulti che lo circondano. In questo senso, pronunciare correttamente le parole diventa meno necessario e nessun genitore passa più ore e ore a correggere un figlio che non dice bene la ‘r’ o la ‘d'”. “Non dimentichiamo – conferma Vicari – che i bambini agiscono per imitazione: camminano se vedono altre persone farlo, parlano per ripetere i suoni emessi dai genitori. Anche per imparare a parlare, comunque, la tv può avere un impatto negativo, nonostante qualcuno pensi il contrario: si tratta di un ascolto passivo, molto meglio l’interazione che si stabilisce tra bambino e adulto, magari aiutata da un libretto illustrato, da una filastrocca o da una canzone”. Che cosa fare e che cosa evitare? Lasciar parlare il piccolo senza interromperlo, anche se sbaglia, ascoltandolo con attenzione, favorire i suoi gesti, ripetere correttamente le parole senza pretendere che lo faccia anche lui. Da evitare invece la presa in giro o – peggio – l’abitudine di far finta di non aver sentito perché la parola è stata pronunciata in modo approssimativo.

(28 Gennaio 2009)

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