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Mendicante a quattro anni, per i giudici non è schiavitù

images-12.jpgUn bambino rom, anche se di soli quattro anni, che mendica insieme con la mamma, e lo fa soltanto per alcune ore e non per l’intera giornata, non è sfruttato e la mamma non può essere condannata per riduzione in schiavitù.

Lasciandosi dietro una lunga scia di reazioni indignate o perlomeno dubbiose, la Cassazione ha così annullato una sentenza della Corte d’Appello di Napoli che aveva condannato Mia, una madre rom scoperta a fare accattonaggio con il figlio.

La polizia aveva sorpreso due volte Mia in una strada di Caserta seduta per terra con un bambino più piccolo in braccio, mentre quello di quattro anni tendeva la mano ai passanti e poi dava alla mamma i soldi.

In primo grado la donna era stata condannata a 6 anni sia per riduzione in schiavitù sia per maltrattamenti in famiglia. In appello la Corte non aveva ravvisato i maltrattamenti ma aveva confermato la riduzione in schiavitù e condannato Mia a 5 anni. La Cassazione ha ribaltato tutto: la donna non può essere condannata per riduzione in schiavitù ma soltanto per maltrattamenti in famiglia. La pena sarà inferiore.

Per la Suprema Corte non soltanto Mia non faceva parte «di un’organizzazione volta allo sfruttamento dei minori», ma occorre anche «prestare attenzione alle situazioni reali». Primo: la donna mendicava per povertà. Secondo: mendicava con il figlio soltanto dalle 9 alle 13, quindi non c’è «quella integrale negazione della libertà e dignità umana del bambino che consente di ritenere che versi in stato di completa servitù ». Terzo: non si possono «criminalizzare condotte che rientrino nella tradizione culturale di un popolo». Il mangel, l’accattonaggio usualmente praticato dagli zingari, scrive la Cassazione, per «alcune comunità etniche costituisce una condizione di vita tradizionale molto radicata nella cultura». Lo fanno adulti e bambini, non c’è da scandalizzarsi.

images3.jpgAltroché se c’è da scandalizzarsi, replicano indignate le parlamentari del centrodestra. Per Gabriella Carlucci, vicepresidente Pdl della commissione Infanzia, «la sentenza derubrica a maltrattamenti in famiglia lo sfruttamento dei minori e legittima la riduzione in schiavitù dei piccoli rom». Barbara Saltamartini, componente della stessa commissione, si chiede come sia possibile che «mendicare anche soltanto “part-time” non venga considerata una forma di costrizione per un bambino di quattro anni? Questa sentenza sembra obbedire ad una logica ideologica, i bambini rom non sono bambini di serie B».

Nel centrosinistra non si grida allo scandalo ma neppure si giustifica la teoria messa in piedi dalla Cassazione. «Questo è veramente un caso di relativismo etico – dice la parlamentare del Pd Livia Turco -. Io capisco lo sforzo che hanno fatto i giudici per comprendere il contesto, anche culturale, in cui vive quella famiglia rom ma questo sforzo non può portare ad accettare una condizione che è contraria ad ogni valore comunemente condiviso in difesa dei diritti dei bambini». Stessa certezza per la vicepresidente Pd della bicamerale Infanzia, Anna Serafini. «È ovvio che non ci troviamo di fronte ad un’organizzazione criminale che sfrutta i minori. Ma anche in questo caso c’è un interesse superiore del bambino che non possiamo dimenticare. È il suo diritto a non vedersi privato dell’infanzia e sottratto alla scuola».

Possiamo solo aggiungere che la Legge e le decisioni dei giudici devono sempre essere prese per buone, correndo altrimenti il rischio di delegittimare lo Stato di Diritto. Ciò non toglie la possibilità di una analisi critica di certune sentenze, come quella in esame, affinchè certi ‘errori’ possano non ripetersi.

Forse una migliore lettura della Carta dei Diritti dell’Infanzia, su cui tanto ci battiamo come organizzazione educativa per l’infanzia, andrebbe riletta più attentamente. Quest’ultima indica chiaramente che il bene superiore del bambino e il diritto alla sua infanzia, di cui crediamo non faccia parte l’accattonaggio, prescinda anche dai condizionamenti culturali e familiari in cui il bambino è inserito.

Alla luce di questo, risulta difficile comprendere la decisione della Cassazione se non sulla scorta di una amara considerazione. Ci preoccupa il fatto cioè che ancora oggi, dopo molti progressi in quest’ambito, il bambino venga visto non come soggetto di diritto indipendente e con specifiche esigenze e diritti, bensì come un piccolo adulto. E dunque sia concepibile da parte della società civile tollerare alcuni atteggiamenti perpretati dagli adulti, gravemente dannosi per la sua infanzia e il suo corretto sviluppo psicofisico.

(30 Novembre 2008)

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