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La scelta del figlio unico un buon investimento?

Se i risultati, tanto lusinghieri, realizzati nella vita da Indro Montanelli, Galileo, Leonardo da Vinci e (perdonatemi l’accostamento) Gesù, trovassero la giustificazione primaria in un fatto molto semplice, nell’essere, tutti loro, figli unici?

Nel corso dei due ultimi secoli il profilo intellettuale dell ‘only child (una rarità fino a metà degli anni Ottanta nel mondo Occidentale) è stato oggetto di molta curiosità. Con la tendenza a demonizzarlo (il primo a farlo fu lo psicologo americano Stanley Hall che lo descrisse incapace di comunicare, vanitoso e egocentrico) o a mitizzarlo. Angolazione secondo la quale sarebbe un soggetto privilegiato, più sicuro di sé grazie al surplus di attenzioni ricevute da parte dei «genitori elicottero» (come li definisce la psicologa americana Madeline Levine) pronti a far fronte a qualsiasi desiderio purché il pargolo abbia successo.

Alcuni studi fatti negli ultimi vent’anni parrebbero suggerire che il figlio unico riesca meglio a scuola e ottenga voti migliori: chi passa l’esame di ammissione nelle università americane, ad esempio, è nell’80 per cento dei casi uno a corto di fratelli. Va controcorrente – e non ci tira su il morale – quanto emerge da una ricerca realizzata da Daniela Del Boca, professore di economia politica all’università di Torino e direttore del centro interuniversitario Child , presentata a Roma a un convegno alla Banca di Italia. In questo momento l’Italia detiene il primato del tasso di fecondità più basso d’Europa, 1,4 bambini per donna contro una media europea dell’1,9, fecondità che da noi non ha ripreso a crescere, a differenza di quanto è avvenuto negli altri paesi, Francia in testa. D’altro canto alla nascita del figlio, più di un quarto delle donne lascia in lavoro. Perché non è supportata da strutture adeguate e la figura paterna latita (ancora oggi il 77 per cento del tempo dedicato al lavoro familiare è sulle spalle delle donne).

«Un figlio solo e la mamma a casa, situazione tradizionalmente ideale per lo sviluppo del bambino – dice l’economista torinese -; invece, i dati di confronto fra i nostri adolescenti e quelli di altri 56 paesi ci rivelano che l’Italia ottiene uno dei peggiori punteggi nella valutazione delle competenze linguistiche e delle abilità matematiche». Insomma, il figlio unico «all’italiana» (unico, perché ormai la coppia non riesce ad arrivare al secondo, soprattutto per motivi economici) risente negativamente della mancanza degli asili nido, di una mamma a casa che, fuori dal mercato del lavoro, rischia di essere lei stessa priva di stimoli. Certo è che questi dati ci pongono di fronte alla questione cruciale di quanto il bambino per crescere bene abbia bisogno di socializzare con i pari e di vivere in un ambiente che lo aiuti a tirare fuori le sue potenzialità, ma non risolvono il quesito che ci siamo posti all’inizio: il figlio unico è più brillante sotto il profilo intellettuale di chi cresce in famiglie affollate o no?

Una risposta avrebbe potuto venire dalla popolazione cinese, dove a partire dal 1979 è stata attuata una politica demografica feroce per limitare le nascite. Ha condotto studi in Cina e negli Stati Uniti insieme alla collega Denise Polit, Toni Falbo, psicosociologa dell’università del Texas ad Austin che, forse perché figlia unica lei stessa, ha dedicato gran parte della sua vita allo studio di chi nasce in queste famiglie «corte». Preoccupandosi soprattutto di dimostrare che gli stereotipi sul figlio unico, egoista, poco capace di adattamento, malinconico, non hanno riscontro nella realtà, ma arrivando anche a scoprire che il tasso di intelligenza di queste persone è probabilmente un po’ più alto.

«D’altro canto anche i dati del programma Pisa rivelano una capacità di muoversi nel mondo reale utilizzando le competenze acquisite a scuola lievemente superiore nei figli unici» ci informa Brunella Fiore, sociologa ricercatrice all’università di Milano-Bicocca. Il Pisa, acronimo di Programm for international student assesment, è un ciclo di indagini promosso dall’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, per valutare le effettive competenze della popolazione quindicenne: condotto ogni tre anni, nel 2009 è arrivato a coinvolgere 57 Paesi. «Ebbene – aggiunge la ricercatrice – se poniamo a 500 il punteggio medio, il figlio unico arriva a 514, quello che ha un fratello si ferma a 492, chi ne ha più di uno 469». Più intelligente e forse anche più felice, almeno stando ad una ricerca condotta l’anno scorso dall’università di Essex su 2.500 giovani inglesi.

(6 Novembre 2011)

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