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Pendolari della Famiglia. La nuova frontiera

images1.jpgAntonia ha 14 mesi, e la parola “treno” è stata una delle prime che ha imparato a sillabare. Sofia ha due anni e mezzo e vive tre settimane a Padova e sette giorni a Roma.

Paolo e Pasquale, 5 e 6 anni, aspettano il weekend a casa della mamma con ansia e allegria, perché lei abita con delle amiche più giovani, e lì c’è sempre movimento, musica, cose che accadono. Anita invece ha addirittura doppi amici, a Cagliari e a Milano, viaggia in aereo fin da quando era piccolissima, e della sua baby-vita pendolare va anche un po’ fiera. Hanno genitori con i cuori uniti e le vite separate Antonia, Anita, Paolo, Pasquale e Sofia, bambini controcorrente di una nuova generazione di famiglie mobili, atipiche e “pendolari”, coppie tra i trenta e i quarant’anni con buone specializzazioni e buone professioni, “costrette” dal lavoro a vivere in cittá diverse, regioni diverse, a volte, anche in nazioni diverse. Eppure pronte a rischiare una vita fatta di acrobazie e distanze pur di diventare genitori.

“Pendolari della famiglia”, li ha definiti l’Istat, al sorgere di un fenomeno che oggi riguarda in Italia quasi due milioni e mezzo di persone, di cui 650 mila formano stabilmente nuclei di “famiglie a distanza”, con numeri in perenne crescita, e dove le donne in trasferta sono sempre di più. “L’obiettivo è naturalmente ricongiungersi, soprattutto per il bene dei bambini, ma piuttosto che rinunciare ad avere un figlio abbiamo preferito rischiare, pur sapendo che avremmo fatto una vita faticosa e difficile, ma se avessimo ragionato troppo, o aspettato troppo, Sofia forse non sarebbe nata”, racconta Pietro, 37 anni, che fa l’archeologo e ha un incarico a Roma, mentre Federica, la sua compagna, anche lei archeologa, è stata appena assunta alla soprintendenza di Padova.

“La nostra vita da pendolari funziona così: dal lunedì al venerdì lavoro a Roma, il fine settimana vado a Padova, mentre per una settimana al mese Federica viene a Roma con Sofia. Per lei è ancora tutto un gioco – dice Pietro – ha la casa di Roma, la casa di Padova, i nonni qui, gli altri nonni su, non sembra risentirne. I nonni poi sono fondamentali. Senza il loro aiuto preziosissimo non ce l’avremmo fatta. Certo, non è una formula semplice, è tutto faticoso, costoso in modo pazzesco, un treno che salta è un disastro, ma oggi non ci si puó permettere di rinunciare a un lavoro, si deve seguire il lavoro. È il problema della mia generazione: siamo tutti talmente senza certezze che forse l’unica certezza è quella di fare un figlio. E poi di costruirgli intorno una famiglia solida”.

Una sfida complicata. Un modo di vita più anglosassone che italiano. Una reazione alla crisi, alla domanda di mobilitá. Né emigrazione povera, né pendolarismo d’élite: è la generazione dei trentenni che prova a ridisegnare il proprio futuro. Anche se, avverte Luigi Tronca, ricercatore di Sociologia all’universitá di Verona e autore del libro “Il capitale sociale degli italiani” (FrancoAngeli), “la mancanza di condivisione della quotidianitá è un prezzo alto da pagare, le relazioni familiari sono fatte di momenti, di tempo vissuto insieme, è questo il nostro capitale sociale, è vero che il lavoro impone delle scelte, ma non è detto che siano le scelte giuste”. Forse. Infatti la meta è il ricongiungersi, riunire vite, case, giorni e settimane. Peró, a sorpresa, tra queste coppie che corrono da un treno all’altro, prenotando biglietti low-cost e tariffe stracciate, prevale, tutto sommato, l’ottimismo.

Mariangela ad esempio ha fatto una scelta drastica: quando dopo anni di precariato è arrivato l’incarico a professore di ruolo, si è trasferita a Roma, mentre Paolo e Pasquale, 5 e 6 anni, sono rimasti a Sorrento con Umberto, che gestisce d’estate un piccolo stabilimento balneare. “Ho provato ad andare avanti e indietro, ma ci stavo rimettendo la salute. La mia famiglia peró ha bisogno di uno stipendio sicuro, e sono molto felice di insegnare finalmente al liceo. Ma con quello che guadagno mi sarebbe stato impossibile pagare un affitto. Così a 40 anni – scherza Mariangela – sono tornata a fare l’universitaria. Con altre due colleghe “fuorisede” adesso dividiamo un appartamento, viviamo un po’ come ragazze, ascoltiamo la musica… Ho chiesto alla preside di poter concentrare il mio lavoro fino al giovedì, e la sera sono a casa. I bambini mi mancano enormemente, ma non avevo scelta. Se peró mi devo fermare a Roma anche il sabato mi raggiungono con il padre, e in questa casa si divertono moltissimo”.

Storie. Di chi cerca di resistere, fronteggiare la crisi, inventando nuovi modelli e nuove strategie. “La veritá è che ci troviamo di fronte ad una mobilitá parziale”, spiega Letizia Mencarini, professore associato di Demografia all’universitá di Torino, “perché nella coppia di solito si sposta soltanto uno dei due, e l’altro, quasi sempre la donna, resta con i figli vicino alla famiglia d’origine”. Anche tra i giovani. “Ma questo è comprensibile – aggiunge Mencarini – perché senza i nonni, senza il welfare familiare, sarebbe impossibile avere uno o più figli in queste condizioni di pendolarismo professionale, in un sistema rigido come quello italiano, che in realtá non favorisce affatto gli spostamenti, pensiamo al mercato degli affitti, alla difficoltá di lasciare un lavoro e di trovarne un altro.

Questi giovani che si sfidano per formare una famiglia sono un’avanguardia di modello anglosassone, ma ancora un’avanguardia”. Anita ha sette anni, ed è una frequent flyer tra Cagliari, dove vive con la mamma Gioia, medico ospedaliero, e Milano, dove Francesco fa lo scenografo di teatro e tv. Lo loro storia è controcorrente. Perché a settembre torneranno a vivere tutti insieme, a Cagliari. “Anita non lo dice, ma il padre le manca troppo – ammette Gioia – e come coppia stavamo entrando in crisi. Così Francesco ha deciso di fare la scelta su cui stava meditando da tempo. Lascia Milano, torna in Sardegna. Nel suo campo qui di lavoro ce n’è poco, ma il mio stipendio è buono… È un rischio, ma questi anni ci siamo ammalati di nostalgia. Adesso basta così”.

Tra i tanti “acrobati della famiglia”, Michele e Barbara sono di certo tra i più organizzati. Hanno entrambi 38 anni, lavorano nell’editoria, e sono gli innamoratissimi genitori di Antonia, che ha 14 mesi. Vivono insieme da 10 anni, ma Michele ha un contratto a Firenze, e Barbara un impiego stabile a Milano. Un amore avanti e indietro, tanti treni, tanti appuntamenti, quel “Lat”, living apart together che ha caratterizzato la vita di migliaia di coppie nella generazione tra i trenta e i quarant’anni.

Eppure, due anni fa, nonostante il pendolarismo, Barbara e Michele hanno deciso di avere un bambino. “Un assoluto azzardo – commenta lui, ma con la gioia nella voce – di cui siamo totalmente felici. Con un’organizzazione di vita che ci fa passare per pazzi agli occhi di molti. Antonia vive 15 giorni a Firenze, dove va al nido, e 15 giorni a Milano, dove è invece accudita da una tata. Qui a Firenze insieme a me si occupano di Antonia le due nonne (una viene addirittura da Bologna), e nel mio giorno libero andiamo insieme a Milano, mentre Barbara torna a casa il venerdì sera. Antonia sembra per adesso felice e serena, sa di avere molte certezze, ma è chiaro che il nostro obiettivo è quello di tornare a vivere tutti insieme e di darle stabilitá, e il problema ci si porrá giá l’anno prossimo con la scelta della scuola materna.

I costi di tutto questo sono pazzeschi, a volte la stanchezza ci logora, ma avere una meta ci sostiene”. “Del resto – aggiunge Michele – abbiamo dovuto adattare il nostro desiderio di avere un figlio alla nostra precarietá esistenziale. O così, o si rinuncia. E molti nostri amici hanno rinunciato a diventare genitori. Certo, un secondo bambino così forse non è possibile. Peró, chissá. Non so se la formula della famiglia a distanza sia una formula giusta. Per noi, adesso, è l’unica possibile. E Antonia ormai è una viaggiatrice perfetta”.

(9 Marzo 2010)

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